L’impiego di questo “mestiere” richiedeva spesso sacrifici in più, poichè la relativa pesca (pescespada ed alalunghe) veniva pure svolta con condizioni di maltempo; tradizionalmente tessuta in “corda”, la rete disponeva di “maglie” da “4” a salire, era lunga circa 800 “passi” e profonda circa 10 ( 1 passo o “braccio” – fathom: 1,83 mt). Inizialmente, il mestiere montava una campana all’altezza della “stazza” ( il “principio” della rete ) appesa ad un arco di canna ed applicata su un quadrato in legno supportato da vari sugheri che ne determinavano il galleggiamento. Questa aveva lo scopo di segnalare, di notte, l’inizio (appunto) della rete, e si realizzava col suono dovuto al movimento che il “battacchio” compiva grazie all’andamento ondoso del mare. Successivamente, la segnalazione notturna del mestiere si effettuava grazie ad un “lume” che rimpiazzò la campana, appeso al posto della stessa. La pesca “cà palamitàra” prevedeva di raggiungere determinate “càle”, e precisamente:
da Aprile a Giugno tra Palmi e Torre Cavallo (in Calabria) e tra Luglio ed Agosto, tra S. Raineri e Tremestieri (Messina).
Negli anni, la costituzione del mestiere mutò da corda a “nylon” ed il signor Nicola Ruello (dettu “Niculàzza”), che possedeva 3 palamitare, fu il primo ad averene in nuova fibra negli anni ’50, avendone importate dagli Stati Uniti d’ America. Egli fu inoltre il primo ad aver montato su barca apposita (munita “ì Palamèdda”) il motore “entrobordo”.
Praticata per generazioni dai pescatori, questa “specialità” della marineria dello Stretto determinò, purtroppo, anche delle vittime…
Durante una “cala” di pesca il 09-05-1930 il signor Letterio Arena, nato il 02-04-1873 e coniugato alla signora Maria Scarfì, rimase folgorato da un fulmine a causa del maltempo che imperversava…
Nella notte tra il 23 ed il 24 Aprile 1958, la barca “Ninetta”
(di proprietà di Padre Scarfì – “ù Prufissùri”) salpata da Punta Faro insieme ad altre imbarcazioni per la battuta di pesca “à lalònghi”, recatasi probabilmente tra Scilla e Palmi a ridosso “dì Sèrri”, per l’ imperversare del maltempo sopraggiunto, naufragò senza lasciare traccia alcuna, trascinando negli abissi il suo intero equipaggio composto dai signori:
- Nicola Alessi (dì “Pirài”, nato il 10-04-1924),
- Antonino Bonanzinga (dettu “Babbaièddu” , nato il 02-09-1930),
- Domenico Burrascano (“ù Napulitànu dù Lubbìttu” , nato il 01-01-1924),
- Antonino La Fauci (dù “Ballaùssu” , nato il 17-09-1939),
- Domenico La Fauci (dù “Bù” , nato il 25-10-1935),
- Salvatore La Fauci (dù “ Bù” , nato il 08-02-1938),
- Giovanni La Fauci (dettu “Vandùgghia” , nato il 21-07-1922),
- Arturo Piccione (dettu “Attùru” , nato il 07-09-1908),
- Antonino Russo (dettu “ù Cammaròtu” , nato il 01-08-1934),
- Giuseppe Scarfì (dù “Jàncu” , nato il 30-10-1932).
Di tutti loro, soltanto il corpo del signor Domenico Burrascano venne ritrovato e sottratto agli abissi il giorno seguente il naufragio, 2 miglia oltre la ”lanterna” di Torre Faro, verso Palmi. Di questa triste vicenda, voglio riportare la testimonianza di mio padre, Salvatore, fratello di Antonino, scampato miracolosamente alla tragedia..: “..Si varava dalla spiaggia sotto ‘ì funnèdda’ (o ‘fussèdda’), dove tutte le barche ‘ì palamitara’ trovavano ‘scalo’ e dove peraltro sorgeva il ‘magazzino’ apposito per riporre questo tipo di rete, di proprietà di padre Scarfì; essendo il tempo ‘a Scirocco’, solo 4 pescatori poterono imbarcare allo ‘scàru’, i rimanenti (a piedi) ci avviammo verso la battigia ‘dù Paraò’ (sotto la torre degli Inglesi) dove, più al riparo dal vento, sarebbe stato maggiormente possibile salir a bordo della già bassissima barca. Ma, all’atto di unirmi al resto dell’ equipaggio, il signor Arturo Piccione, giunto nel frattempo, esclama: …‘Nò, ci sèmu già, sèmu assài; stàttiti ‘ntèrra… Dio l’abbia in Gloria..! Senza saperlo, mi salvò la vita, a differenza del mio povero fratello Nino, perito la notte successiva con tutti gli altri, rimasti vittime di una violenta bufera con forti raffiche da ‘Scirocco e Levante’ che li sorprese durante la battuta di pesca..”
La palamitara venne utilizzata per l’ultima volta da pescatori di Torre Faro nel 1987, venendo calata sulle nostre spiagge, dai signori Giuseppe Laganà, nato il 07-08-1964 (figlio “dù Pàffiu”, deceduto il 12-12-1994 conseguentemente ad un incidente stradale con la sua potente moto) e Giulio Freni (“dù Sàntu Giànni”).
Questo “mestiere” ha tuttavia continuato ad essere utilizzato intensivamente nel Mediterraneo.
Da una fonte “WWF” possiamo apprendere che:
…Le reti da posta “derivanti”, quindi non fisse, venivano calate in mare e lasciate alla deriva, per la cattura di grossi pesci pelagici, come diverse specie di tonni, ma soprattutto per il pesce spada, da cui prendono appunto il nome. Erano reti lunghissime, anche fino a venti chilometri, e larghe fino a trenta metri, fatte di “nylon” molto resistente…
Rispetto ai tradizionali metodi di pesca la differenza era sostanziale: non venivano più usate reti di poche centinaia di metri, bensì autentiche barriere lunghe diversi chilometri, che provocavano il cosiddetto “effetto muro”; le moderne spadare di fibre sintetiche inoltre non venivano calate vicino alla costa da piccole imbarcazioni a remi o a vela, bensì da pescherecci con potenti motori che si spostavano in mare aperto.
Il loro livello di selettività era molto basso, cosicché, oltre alle cosiddette specie “bersaglio” può incapparci di tutto, come ad esempio tartarughe, piccoli delfini ma anche cetacei molto più grandi come i capodogli e le balenottere presenti nel Mediterraneo. Da un’indagine condotta nel 1993 è risultato che solo il 18% circa di pesci catturati era costituito da specie “bersaglio”. Uno studio promosso dall’allora Ministero della Marina Mercantile, accertò nel 1990 e nel 1991 che almeno 30 specie diverse erano incappate nelle reti calate nel Mar Ligure e nel Mar Tirreno. La “Commissione Baleniera Internazionale (IWC)” calcolò nel 1990 in almeno 8000 all’anno i cetacei vittime delle spadare, esprimendo preoccupazioni sia per il livello “insostenibile” di mortalità delle popolazioni mediterranee di Cetacei e Delfinidi, che per l’incidenza delle spadare sulla popolazione di capodogli . Ma le spadare sono state accusate di arrecare un danno non solo alle cosiddette specie accessorie, ma alle stesse specie di interesse commerciale: in parole povere, si pescano pesci di taglia sempre più piccola .
Contro questo tipo di pesca vi fu dapprima la risoluzione 44/225 del Dicembre 1989 delle Nazioni Unite, cui fece seguito a livello comunitario (Regolamento CEE n.345/92 del 28/10/1991) il divieto di usare reti più lunghe di due chilometri e mezzo a partire dal 1° Giugno 1992 (divieto praticamente non rispettato a causa della scarsissima redditività di reti così corte) e, successivamente, il regolamento 894 del 29 Aprile 1997, che disponeva la messa al bando totale delle spadare a partire dal 1 Gennaio 2002 “ per assicurare la protezione delle risorse biologiche marine nonché uno sfruttamento equilibrato delle risorse della pesca conforme all’interesse sia dei pescatori che dei consumatori” (punto 2 del Regolamento CE 894/97).
A partire dal 1998 furono varati dei piani per la dismissione e la riconversione delle spadare, con dei contributi economici a sostegno sia degli armatori che degli equipaggi e a questi piani aderirono, non senza polemiche, tutti gli armatori che usavano le spadare, tranne un novantina. Un recente Decreto del Ministero delle politiche Agricole e Forestali del 27 Marzo scorso e una circolare della Direzione Generale Pesca del 10 Aprile, hanno riaperto la questione, perché autorizzano anche coloro che avevano beneficiato del cosiddetto “piano spadare” ad aggiungere al sistema di pesca noto come “ferrettara” anche le reti da posta fisse, purché lunghe fino a cinque chilometri…
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