… Ogni tanto da quel “baraccone socialnetworkale” chiamato Facebook esce fuori qualche iniziativa interessante: tempo fa sono stato iscritto al gruppo “Cinque messinesi più famosi di tutti i tempi” dove veniva richiesto di menzionare chi, a nostro avviso, è stato il personaggio storico messinese maggiormente degno di nota. Io, che nel messinesismo ci sguazzo, dopo aver visto un po’ di post e di nomi illustri, mi sono stupito di non aver trovato alcuna menzione su quello che è il maggiore Scrittore contemporaneo peloritano: Stefano D’Arrigo.
Fortunato Stefano D’Arrigo nacque ad Alì (ME) il 15 Ottobre del 1919 (da una famiglia suppongo modesta, al punto che il padre è dovuto emigrare in America a cercar fortuna); completa gli studi a Milazzo e si laurea all’Università di Messina nel 1942, avendo svolto nel frattempo il servizio militare tra il Friuli e Palermo. Dopo un breve periodo trascorso a Messina, decide di trasferirsi a Roma dal 1946, dove diventa col passare degli anni uno stimatissimo Critico d’Arte per i principali quotidiani della capitale, non disdegnando però di scrivere ogni tanto dei versi: la sua ossessiva ammirazione verso la vita dei pescatori dello Stretto, tra Scilla e Cariddi fu il fulcro della sua prima raccolta, il Codice Siciliano, pubblicato nel 1957. A sorpresa, il Codice Siciliano vince il Premio Crotone, prestigioso riconoscimento letterario molto in voga in quel periodo, che annoverava nella giuria nomi illustri quali Gadda e Ungaretti, che da quel momento in poi sono diventati grandi estimatori dello scrittore messinese.
Spinto dalla già citata passione per i nostri pescatori, incoraggiato dalla moglie Jutta Bruto (letterata che per stessa ammissione di D’Arrigo risulta fonte di ispirazione e confronto) decide di dedicare anima e corpo alla stesura dell’opera che sarà il libro della sua vita, la cui gestazione sembra già di per se romanzata. Scrive di getto “La testa del delfino” ed in breve tempo, prima ancora di pubblicarlo, coglie l’attenzione di Elio Vittorini, che dopo averlo letto più volte suggerisce a D’Arrigo di integrare la storia per renderla più epica, pubblicandone svariati parti sulla rivista letteraria “Menabò” dallo stesso Vittorini diretta. Le attenzioni ricevute spingono la Mondadori a stipulare subito un contratto con D’Arrigo, vorrebbero pubblicare un’edizione integrale del romanzo che, nel frattempo, totalmente revisionato e con l’aggiunta di nuovi capitoli, è pronto ad essere mandato in stampa come “I giorni della fera“.
Poco prima pubblicazione, la Mondadori chiede a D’Arrigo un’ultima revisione delle bozze, che colto da una mania di eccessivo perfezionismo aggiunge, cambia, sostituisce, strappa e riscrive, arrivando ad un romanzo di quasi 1300 pagine, che non ne vuole sapere di venir fuori. Per fare tutto ciò D’Arrigo perde anni, nei quali smette totalmente di fare il giornalista, smette di scrivere sul Menabò ed altre riviste letterarie ed incoraggiato solo dalla moglie, continua nella sua oceanica opera di revisionismo; la Mondadori pressa per la consegna, i tempi richiesti dalla casa editrice sono andati a farsi benedire, ma non molla lo scrittore, altre case editrici corteggiano D’Arrigo da tempo, Elio Vittorini stesso lo affianca per lunghi periodi pur di arrivare al più presto ad un’edizione definitiva di quel romanzo, per il quale l’autore mette a rischio la propria integrità fisica e mentale, ma che nonostante tutto non si decide ancora di pubblicare.
Il romanzo vede la luce infine nel 1975, quasi vent’anni dopo la prima versione, solo che l’attenzione su quanto stava scrivendo D’Arrigo non è mai calata: anzi, lo scrittore diventa vittima di un’eccessiva morbosità da parte delle maggiori testate letterarie, in tutto il Mondo aspettano la pubblicazione di quello che dovrebbe essere il punto di unione tra l’Odissea di Omero, l’Ulisse di Joyce e de Il Vecchio e il mare di Hemingway. Verrà pubblicato come Horcynus Orca: è la storia di ‘Ndria Cambria, marinaio della Regia Marina che all’indomani dell’armistizio tra il governo italiano e le forze alleate nel 1943, torna nella sua città, Cariddi, trovandola totalmente distrutta e cambiata dalla guerra, con la paura costante di un attacco del mostro marino che infesta lo Stretto, l’Orcaferone…
Non essendo critico letterario non andrò oltre con la descrizione del romanzo, ma è quello che succede dopo la sua pubblicazione che ritengo interessante: in un primo momento la critica lo stronca, troppo lunga l’attesa per un romanzo che risulta di difficile comprensione, diviso fra il dialetto stretto, un italiano troppo forbito e neologismi coniati dallo stesso D’Arrigo per l’occasione; inoltre, l’autore si rifiuta di scrivere di suo pugno un glossario anche se viene ripetutamente invitato a farlo dall’editore e l’eccessiva lunghezza poi è l’altro punto saliente contro cui la critica si scaglia. La struttura dell’Horcynus Orca è troppo complessa per avere successo, ma l’Horcynus Orca non lo sa ed il successo l’ottiene lo stesso: solo con la prima edizione vende più di 80.000 copie in breve tempo, le successive ristampe anche in versione economica confermano un risultato sorprendente, richiesto e venduto anche all’estero, tanto che la critica cambia punto di vista, annoverandolo come uno dei capolavori assoluti del ‘900 e titolo di riferimento dello “sperimentalismo” italiano.
Grazie a D’Arrigo ed alla sua perseveranza, Stretto e messinesità fanno il giro del Mondo, a distanza di anni non esiste libreria in Italia che non annoveri ancora l’Horcynus Orca tra gli scaffali dei best sellers. Ciò che ha fatto la Fortuna dello scrittore però è stata la fine dell’uomo, un D’Arrigo debilitato, stanco, introverso, si estranea dal Mondo ed anche dal successo che lo circonda, finisce di viaggiare tra Roma e Messina stabilendosi apatico e stanco nella capitale, il fervore letterario che si è creato attorno a lui gli scivola addosso e solo dopo più di dieci anni, sul finire del 1985, riesce a pubblicare finalmente un secondo romanzo, più che altro per far contenti gli editori che non se stesso. “La cima delle nobildonne” è un’opera totalmente diversa dalla precedente: scarna (non arriva neanche a 200 pagine), scritta in un italiano irreprensibile (forse a volte un po’ troppo forbito), incentrato nell’ambiente medico, dove un bellissimo ma pericoloso ermafrodito, favorito dai milioni che un emiro innamorato mette a disposizione, fa di tutto pur di diventare donna. Su questo romanzo di più non so, al contrario dell’Horcynus Orca non l’ho mai letto, mi sono basato su ciò che ho trovato sul Web anche perchè sembra quasi impossibile da reperire. Le stesse fonti ribadiscono un riscontro di vendite e di critiche molto lontane dal precedente, però “La cima delle nobildonne” ha comunque un merito: quello di “risvegliare” D’Arrigo, si rilancia a piccoli passi nell’ambiente letterario, concentrandosi soprattutto nella trasposizione teatrale dell’Horcynus Orca (la recitazione ce l’ha nel sangue, avendo partecipato come attore nell’Accattone dell’amico Pasolini).
Partecipa come parte attiva a premi, interviste, si rimette alla scrittura, dichiarando più volte di avere un’altra epica idea per un nuovo romanzo, pur essendo consapevole di non avere più le forze fisiche e mentali per gestire un nuovo Horcynus Orca: Stefano D’Arrigo muore nella sua casa romana il 2 Maggio del 1992; all’epoca, i media diedero a questa scomparsa la stessa attenzione data per la morte di autori forse più noti come Moravia, perchè soprattutto tra gli Scrittori contemporanei, in pochi sono riusciti a lasciare il segno con un’unica corroborante opera. D’Arrigo forse c’è riuscito, lottando contro le imposizioni di critica ed editori, seguendo fino in fondo il suo progetto, mettendo Messina al centro del suo mondo e portandola in giro per un pianeta intero; per questo, campanilisticamente parlando, ritengo Stefano D’Arrigo un Grande messinese, uno Scrittore degno di nota come pochi altri.
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